di Riccardo Vergnani
“Era inverno a Belleville e c’erano cinque personaggi. Sei contando la lastra di ghiaccio. Sette, anzi, con il cane che aveva accompagnato il Piccolo dal panettiere. Un cane epilettico, con la lingua che gli penzolava da un lato.”
(Daniel Pennac, La fata carabina)
Correre.
Correre, sempre di corsa.
La vita nelle grandi città è così: una corsa continua saltando da un vagone all’altro con in mano un panino e nell’altra la mappa della metro. Sì, la mappa, perché vivi a Parigi da un mese ma ancora non ti sai orientare.
A volte capita, però, di riuscire a rubare un po’ di tempo alla noia dei weekend – contrappasso dantesco alla frenesia dei giorni feriali – e di esplorare quelle parti della Ville Lumière che ancora non conosci. Quindi, accompagnato da un piccolo gruppo di profughi dello spleen, domenica sei andato a Belleville.
Belleville è nel 20° arrondissement, a nord rispetto al centro vero e proprio e all’Île de la Cité (Notre-Dame, per intenderci). Un tempo era un comune autonomo, immerso nella campagna e costellato di vigne, un po’ come la Montmartre dei dipinti impressionisti. All’inizio del Novecento diventò il quartiere operaio della capitale che l’aveva inglobato (anzi, letteralmente inghiottito), ma conservante il fascino del proletariato allegro della Belle Epoque – quello dei tram sferraglianti e del can-can puttanesco che manco i peggiori bar di Caracas. È la Belleville dove nasce e debutta cantando sulla strada una certa Édith Giovanna Gassion, più tardi conosciuta come “l’usignolo”, che nell’argot parigino si dice “piaf”. Edith Piaf.
XXI secolo, altro giro di giostra. Qualche turista particolarmente coraggioso si avventura tutt’al più fino al Père Lachaise, uno dei tre grandi cimiteri di Parigi, mormora una preghierina sulla tomba di Jim Morrison e torna di corsa in albergo. Perché Belleville è la prateria della colonia parigina, landa di bisonti e pellerossa dallo sguardo assassino. Oggi Belleville è un quartiere multietnico. Dio, è vero che tutta Parigi è multietnica, non trovi un Parigino originale manco a pagarlo. Ma Belleville è una dichiarazione di intenti: qua finisce la Francia della bandiera tricolore e della baguette sotto l’ascella e comincia quella terra di nessuno chiamata globalizzazione.
Scesi dalla metro su Boulevard Belleville galleggiamo increduli tra una folla colorata e berciante che farebbe rivoltare nella tomba il nazionalismo imperialista di De Gaulle, e ci immergiamo nella giungla babelica del quartiere. Piove, dobbiamo scazzottare con gli ombrelli ed evitare tutti i mocciosi multicolor urlanti che ci tagliano la strada. La prima via che si apre di fronte a noi è ricoperta di murales, e passiamo di fronte a case basse dalle strane vetrine che intuiamo essere centri sociali dai volantini inneggianti al rivoluzione attaccati all’esterno.
Poi negozi su negozi, vetrine zeppe di roba a bassissimo prezzo, scarpe sgargianti e improbabili vestiti da sposa turca. Cumuli di rifiuti lungo la strada ti ricordano con nostalgia l’Italia.
Il tuo amico Roberto intanto rompe l’anima con la sua fissa dell’antropologia degli odori; in effetti Belleville è un cosmo da esplorare per l’olfatto: la base di merda comune a tutta la città (sì, Parigi puzza di merda, accettiamolo) si mescola all’odore pungente della carne esposta nelle macelleria kosher, alle promesse d’oriente del tè alla menta dei caffè arabi e al fritto degli immancabili ristoranti cinesi.
Il parco di Belleville è invece incredibilmente curato e pulito. Gli spacciatori si aggirano di sottecchi vicino alle cancellate, chissà quale forza misteriosa, quale anatema, li tiene fuori. Una guardia imponente e dall’aspetto intimidatorio (una donnetta di mezza età alta sì e no un metro e cinquanta) ti sorride compiaciuta. Sarà lei che tiene lontani i malviventi? La guardi con deferenza e passi oltre.
All’angolo di Place Maurice Chevalier (la Francia sa onorare i propri eroi) ci fermiamo davanti a un strano negozio. L’entrata è in legno e dipinta di verde. Sull’insegna leggo “Eva Pritsky. Personnalités excellentes ”. Sfortunatamente la porta è chiusa, ma l’enciclopedica Carla mi spiega che si tratta di un bistrot-brocante, ovvero un ibrido fra una libreria, un bar e una galleria d’arte. Si può pure fumare all’interno. Insomma, un luogo al limite della clandestinità se non fosse che l’amministrazione comunale ha concesso all’anziana proprietaria, madame Eva Pritsky, di fare un po’ come cazzo le pare in nome della storicità del locale. Poesia dell’anarchismo bohémienne.
Arriviamo finalmente alle pendici della mitica Rue de Ménilmontat. Perché sia mitica in realtà non lo so, ma è un nome che viene pronunciato sempre con una certe deferenza dagli abitanti di Parigi. Forse perché sale in cima a una collina o forse perché ricorda un po’ il saliscendi di San Francisco. Un tempo in cima c’erano i mulini, e ogni dieci anni qualche cantante famoso ci scrive sopra una canzone. Nel 1776, passeggiando lungo questa via Rousseau fu buttato a terra da un alano, che probabilmente aveva riconosciuto in lui uno svizzero in vacanza. Chissà, forse per tutti questi motivi Ménilmontant è un gran posto.
Arrivati in cima, il dio dei gitaioli domenicani (cugino povero del dio dei viaggiatori) ci concede un attimo di tregua dal maltempo e apre uno squarcio in cielo che illumina la città sottostante. Seppur lontani, si vedono chiaramente il Beaubourg e il centro Pompidou. Bello, foto col cellulare.
Siamo stanchi, e la pioggia riprende a battere con simpatica ostilità. Ci dirigiamo allora verso la Bellevilloise, locale storico del quartiere. La Bellevilloise nasce nel 1877, all’indomani della Comune, come prima cooperativa parigina col chiaro progetto di rendere accessibile alle classi meno agiate una certa educazione culturale e politica. Negli anni diventa un luogo di scambi commerciali “a basso prezzo” e conosce vari fallimenti. Diventa persino sede di uffici amministrativi. Tutto questo fino al 2000, anno in cui l’intero immobile viene acquistato da un gruppo di “esperti culturali” e rimodernato da capo a piedi. Oggi è un bar-ristorante a più sale in cui si tengono concerti, mostre e avvenimenti artistici di vario tipo.
Entriamo nel salone principale, che sembra una grande serra a offerta alcolica. Ci sono pure gli ulivi. È il 17 marzo, festa di San Patrizio. Un orchestra di finti irlandesi suona una serie lunghissime di quelle ballate tutte uguali che ti piacciono tanto, perciò dopo circa un’ora e una tripletta di whisky nello stomaco ti trovi a ballare urlando commenti poco cortesi sulla regina d’Inghilterra.
Usciamo che è buio. E assistiamo al miracolo quotidiano della Parigi notturna: un silenzio quasi assoluto in strade completamente vuote. Allora puoi finalmente camminare con calma, senza nessuna fretta, sorridendo al borseggiatore che ti osserva con sguardo lupesco e raggiungendo la metro sul filo di pensieri senza alcuna importanza.
Belleville ti saluta con un occhialino di lampioni intermittenti, e tu sei già sulla strada di casa.
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Il titolo dell’articolo è tratto dall’omonimo (e bellissimo) film d’animazione di Sylvain Chomet.
Molto bello, leggendo il tuo articolo sono riuscito ad immaginare e vedere quanto descrivevi.
Peccato che non vi abbiano borseggiati forse sarebbe stato tutto più vero o forse i borseggiatori sono solo nella nostra fantasia
e Belleville è solo quello che avete descritto :un sogno di altri tempi protetto dalla globalizzazione.