di Matteo Tomasina
Distinguere il “viaggiatore” dal “turista” non è retorica. A dimostrarlo c’è un breve articolo di Hermann Hesse, intitolato genericamente Sul viaggiare (Hesse è celebre per vari romanzi, in particolare Siddharta, ed è stato un autore di riferimento per i movimenti degli anni ’60). L’articolo è del 1904, ma le argomentazioni avanzate non sembrano essere invecchiate con il tempo. Quindi, vizi e virtù sociali sono in buona parte ancora gli stessi.
Lo scritto si apre con una critica del “turista”, il tipico borghese in vacanza (Hesse si riferisce in modo particolare ai suoi contemporanei tedeschi). Si critica la mercificazione del viaggio, il viaggiare come semplice svago e dovere sociale, come modo per riempire i giorni vuoti e afosi delle vacanze. Un turismo per cui ogni meta è indifferenziata, che approda in luoghi scelti a caso o per imitazione. C’è chi – scrive Hesse – “va in montagna perché è tormentato da un incomprensibile desiderio, da una oscura nostalgia di natura, terra e vegetazione; va a Roma perché è un obbligo culturale. Principalmente, però, va in giro perché così fan tutti i suoi cugini e vicini di casa…perché è di moda e perché dopo, a casa propria, ci si sente di nuovo così meravigliosamente bene”. Tre turisti, insiste, “potrebbero scambiarsi reciprocamente i loro programmi e i loro itinerari di viaggio ché non cambierebbe assolutamente nulla. Di conoscenti se ne possono avere ovunque, del proprio denaro ci si può liberare in qualsiasi luogo e di posti con l’aria buona l’Europa e stracolma”.
In particolare, Hesse critica chi pretende di portare le abitudini di casa propria in viaggio con sé. Il viaggio comincia prima della partenza, informandosi sulla cultura e la geografia dei luoghi. Scoprire la bellezza è riconoscere gli elementi che si incontrano come consoni ai relativi luoghi, e adattarsi alla loro natura. Non si può ordinare birra di Monaco a Siracusa o andare a Napoli per cercare persone quiete e tranquille, o, come capita ogni tanto agli italiani, volere avere dovunque il caffè espresso e i camerieri in livrea. Anche se ci muoviamo in luoghi meno esotici, le nostre pretese assomigliano a volte a quelle di chi desidera fare un safari in giacca e cravatta.
Certi passaggi, posti in un altro contesto, potrebbero diventare slogan turismo sostenibile: “[il viaggiatore] non circolerà quindi in comitive di turisti e non alloggerà in hotel internazionali, bensì in locande con osti e personale indigeni, o ancor meglio in case di privati dalla cui vita domestica ricaverà un’immagine della vita della popolazione”. Se no il rischio è di tornare a casa e della gente locale sapere solo che “indossano costumi oltremodo buffi e parlano un dialetto assolutamente incomprensibile”.
[continua]

H. Hesse
Nota: l’articolo è contenuto nella raccolta “L’Arte dell’Ozio” (Mondadori 1998)