di Giuse Sapienza
articolo apparso su http://www.notemodenesi.it/) – foto di Patrick Diekmann
Non ho la pretesa di fornire un’analisi politica dettagliata di quanto stia succedendo in questo momento in Turchia: non ne ho le competenze e sono consapevole della precarietà delle fonti da cui proviene la mia conoscenza. Posso però offrire la mia testimonianza personale di ciò che ho visto e vissuto qui, essendo residente a Istanbul da settembre 2012 in quanto studentessa Erasmus alla Yeditepe University. Immediatamente sbarcati si può intuire che ciò che si dice della Turchia, un Paese segnato da profondi paradossi irrisolti, è vero: in ogni strada sexyshops e negozi di superalcolici e birra a fianco delle moschee; grattaceli e locali di lusso sotto le cui finestre passano a piedi famiglie di zingari trasportando pesantissimi carri di spazzatura. Con il passare del tempo, dopo uno sguardo più attento e dopo aver sentito l’opinione di chi è qui da una vita ci si rende conto che questi contrasti hanno radici molto profonde
Sotto la guida del presidente Mustafa Kemal Ataturk nel giro di una generazione l’organizzazione delle istituzioni e la cultura turca hanno subito un cambiamento drastico: ristabilì l’unità e l’indipendenza della Turchia, quindi depose il sultano Maometto VI (1922), fondò la Repubblica (1923) e diede vita a una serie di riforme fondamentali dell’ordinamento della nazione, sulla base di un’ideologia di chiaro stampo occidentalista, nazionalista e avversa al clero musulmano. Abolì il califfato e pose le organizzazioni religiose sotto il controllo statale, laicizzò lo Stato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, la domenica come giorno festivo, proibì l’uso del velo islamico alle donne nei locali pubblici (legge abolita solo negli anni 2000, dal partito islamico moderato al governo), adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale, abrogò ogni norma e pena che poteva ricollegarsi alla legge islamica, promulgò un nuovo codice civile che aveva come modello il codice civile svizzero, e un codice penale basato sul codice italiano dell’epoca. Furono inoltre legalizzate le bevande alcoliche e depenalizzata l’omosessualità.
La straordinaria velocità con cui furono presi tutti questi provvedimenti non ha permesso al popolo di interiorizzare pienamente i cambiamenti in atto. Dal 2003 è stato eletto primo ministro del governo Recep Tayyp Erdogan, capo del partito AKP, partito islamico-conservatore di centro-destra. Il bacino elettorale di Erdogan non comprende certo le grandi città occidentalizzate come Istanbul, ma il restante enorme territorio della Turchia, occupato da piccoli villaggi rurali. Infatti a chiunque provassi a chiedere un opinione sul conto del governo, fosse un professore, un compagno di classe, il barista del caffè dove vado sempre a prendere il tè, amici di amici incontrati per caso, la risposta era sempre negativa ed esprimeva un profondo malcontento per il suo operato: “Non mi piace, Erdogan si crede il nuovo sultano”, “Sta tradendo lo spirito di Ataturk, vuole riportare indietro la Turchia a uno stato islamico” oppure “E’ una sorta di dittatura, non c’è libertà di opinione, decine sono i giornalisti incarcerati senza processo per aver pubblicato articoli di critica del governo”, “Sai, mi è stato bloccato il profilo di Facebook perché avevo pubblicato un post di sensibilizzazione sulla questione curda” e ancora “Sta promuovendo il totale disinteressamento del popolo alla politica per poter fare i propri interessi, non c’è alcuna possibilità per l’opposizione di avere voce in parlamento” e così via.
Ciò che ci chiedevamo a quel punto, io ed altri studenti internazionali era: come fanno a continuare così? Non si rendono conto che arriverà un punto in cui sarà troppo tardi per far sentire la propria voce? Cosa stanno aspettando?
Ciò che aspettavano era una scintilla, un evento che richiamasse tutti ad un collettivo coinvolgimento, l’ultima goccia che facesse traboccare il vaso. Quest’ultima goccia si è concretizzata lo scorso venerdì negli avvenimenti legati alla manifestazione nel parco di Gezi. Come è iniziato il tutto? Martedì 28 maggio un centinaio di attivisti si erano accampati nel parco di Gezi, situato vicino alla piazza di Taksim, uno dei punti più frequentati e trafficati della città, per impedire la demolizione da parte delle autorità di una delle poche aree verdi rimaste, al cui posto è stata prevista la costruzione di un centro commerciale. Al mattino di giovedì 30 maggio la polizia ha dissipato la manifestazione pacifica tramite gas lacrimogeni e bruciando tende e zaini dei manifestanti. Un incredibile passaparola ha diffuso la notizia tramite i social network ed ha richiamato in centinaia, soprattutto studenti, a ritrovarsi in quel punto venerdì notte per riguadagnare il controllo della piazza.
Io mi trovavo nel mio appartamento a Kadikoy, nella parte asiatica, a seguire incredula le sporadiche notizie provenienti da Taksim, che si facevano sempre più preoccupanti: uso pesante di lacrimogeni, getti d’acqua sulla folla, una donna uccisa, molti i feriti. Evidentemente non solo io, ma tutta la Turchia stava seguendo con il fiato sospeso le notizie della repressione da parte della polizia. E infatti, improvvisamente, verso le 2 di notte, sento dalla finestra la versione turca di “Bella Ciao” suonata per le strade e un crescendo di ciocchi metallici: forchette e cucchiai sbattuti sulle grate delle finestre da tutti gli appartamenti della zona.
Ci affacciamo alla finestra e il mio coinquilino australiano D. esprime a parole una domanda di cui sapevamo già entrambi la risposta: “Cosa stanno facendo?”, “Si stanno svegliando!! Stanno suonando come possono un richiamo per incitare tutti a svegliarsi!”. E immediatamente tutti fuori per le strade con padelle, coperchi, mestoli e cucchiai, tutti a richiamare la gente affacciata dalle finestre dei loro condomini, tutti diretti al punto centrale di Kadikoy, snodo di cinque strade. All’inizio saremmo stati una cinquantina, nel giro di 20 minuti la folla era salita probabilmente a diecimila, tutta a ricoprire la larga via che collega la stazione dei battelli con il monumento del Toro e oltre. questo stava accadendo non solo nel mio distretto, ma in tutto il resto di Istanbul e in tantissime altre città.
Ciò a cui ho assistito è stato davvero incredibile: nel pieno della notte il popolo turco, indignato per il modo violento con cui la polizia, per l’ennesima volta, stava reprimendo una manifestazione assolutamente pacifica, espressione di un governo intollerante e autoritario, ha deciso di far sentire il proprio No, forte e chiaro. Studenti, anziani, coppie con i figli in spalla, ancora in pigiama, erano lì a dire che loro no, non ci stanno. Mentre urlavano allo stato fascista o cantavano le canzoni simbolo della protesta avevano stampato in volto un sorriso liberatorio. Esprimevano l’entusiasmo di chi dopo tanto tempo finalmente prende il coraggio di esprimere le proprie opinioni e si rende conto che la catena che lo frenava dal farlo non era che un’illusione.
In realtà fin da quella stessa mattina del giorno nascente ci si è resi conto che questa catena è tutt’altro che irreale: è fatta di migliaia di poliziotti, è fatta di muri soffocanti di diversi tipi di gas lacrimogeni, di proiettili di gomma, di taniche d’acqua che, tramite cannoni, sparano getti capaci di rompere le costole, di arresti e manganellate.
A questo punto ci si è trovati davanti a una scelta da fare, una scommessa: interrompere le proteste, starsene a casa per evitare di rimanere feriti, riprendere la normalità della vita quotidiana e l’illusione di una democrazia apparente come era stato fin’ora, o mettersi in gioco, rischiare la propria incolumità per difendere la propria libertà di espressione e manifestazione.
La questione del parco di Gezi non costituisce infatti la prima volta che manifestazioni di ogni tipo vengono risolte in questo modo. Da quando sono qui, più di una volta ho ricevuto indicazione di non recarmi a Taksim o nella via Istiklal, adiacente alla piazza, per evitare di trovarsi nel mezzo di uno scontro; specialmente dal primo maggio scorso, quando il governo ha fatto chiudere la piazza per evitare che venisse celebrata la festa dei lavoratori e in cui i manifestanti recatisi lì, tra cui il mio coinquilino, sono stati accolti da decine di bombe gas, non era raro, durante una tranquilla passeggiata domenicale o di un giro tra i negozi, di dover correre a ripararsi coprendosi la faccia perché a pochi passi era stato sparato un lacrimogeno.
Se questa era la situazione a Istanbul, la città più occidentalizzata della Turchia, su cui tutta l’attenzione internazionale è concentrata e in cui le condizioni di vita sono considerevolmente migliori di tutto il resto del Paese, non oso immaginare che tipo di politica sia in atto nei villaggi e nei paesini del restante territorio. Specialmente in una condizione in cui tutti i mezzi di comunicazione sono controllati dal governo ed è praticamente impossibile sapere cosa stia succedendo perfino dalla parte asiatica alla parte europea della stessa città. Basti pensare che in tutto questo tumulto l’unico mezzo di comunicazione a disposizione della popolazione, per avere una qualche idea di cosa stia succedendo e dove, sono i social network: a parte due canali televisivi indipendenti, il resto delle reti turche non è autorizzata a menzionare assolutamente niente della rivolta ed è come se non fosse mai successa, le soap-opera e i talk-show vanno in onda indifferenti.
La situazione a Istanbul da sabato è questa: tutti coloro che possono si recano nella parte europea per manifestare. La manifestazione ha assunto toni molto tesi nei pressi del distretto di Besiktas e del Palazzo Dolmabahce, palazzo che ospita l’ufficio del primo ministro.
Mi sono recata lì domenica notte, non veramente cosciente di cosa ciò comportasse, con la mia convinzione del dovere morale di far sentire la propria voce contro i soprusi di uno stato autoritario che non concede più ai suoi cittadini la libertà di esprimere le proprie opinioni. Non avrei mai immaginato fino a che punto l’ostinazione di un governo (che si sintetizza nella persona del primo ministro) potesse arrivare per dimostrare che il potere è nelle proprie mani e non intende cedere. Era la guerra, un continuo di gas lacrimogeni che ti oscurano la vista, ti impediscono le vie respiratorie fino al vomito, sparati non in aria, come “dovrebbe essere fatto”, ma direttamente addosso alle persone. Diventano proiettili micidiali. Al mio coinquilino ne è stata sparata una su una spalla, provocandogli una brutta ferita, un’altra bomba gli ha sfiorato l’orecchio. Ho visto portare via di corsa un ragazzo su una barella, in testa in giù, completamente coperto con un panno dalla testa ai piedi …
L’obbiettivo dei manifestanti a questo punto è quello di mantenere le posizioni di protesta, vengono costruite barricate con tutto ciò che si trova per strada (cassonetti, panchine, vasi delle aiuole, mattoni, macchine o camion) per impedire la vie ai poliziotti che conducono alla piazza di Taksim e al parco sovrastante, luogo simbolo della manifestazione e dove tutti i giorni tantissime persone si radunano, accampandosi con tende e lettini, organizzando comizi, concerti, balli, picnic, distribuzione gratuita di cibo e medicinali, squadre di pulizia delle strade dai rifiuti e condivisione di notizie e storie. Solo in piena notte può capitare che elicotteri gettino lacrimogeni sulla gente lì rimasta accampata.
Ciò che il popolo vuole sono le dimissioni del primo ministro Tayyp Erdogan: le elezioni dovrebbero tenersi il prossimo anno, nel 2014, ma il sentimento comune è che non si è disposti ad aspettare un momento di più; un presidente che ha dimostrato una tale insensibilità nei confronti dei suoi cittadini ed ha ordinato un uso così massiccio e violento di forze dell’ordine, non può continuare a governare.
Sfortunatamente le dichiarazioni ufficiali del primo ministro non lasciano alcuna speranza. Nei giorni scorsi aveva dichiarato che tutti i manifestanti sono dei delinquenti alcolizzati e che il progetto andrà avanti fino alla fine. Lunedì, prima di partire per il suo viaggio in nord-Africa aveva dichiarato che entro il suo rientro, giovedì, non ci sarebbe più stata alcuna traccia della protesta.
È difficile fare previsioni su come questa storia andrà a finire. È plausibile che nel giro di qualche giorno le energie dei manifestanti si esauriscano e che la polizia riesca ad occupare e chiudere i punti di protesta, ad Istanbul come in tutte le altre città. E poi? Le autorità credono davvero che il popolo possa dimenticare facilmente i morti, i feriti, gli arrestati di questo maggio-giugno 2013? Pensano davvero di poter continuare a portare avanti il paese in un tale malcontento?
Io spero con tutto il cuore che la voce del popolo venga ascoltata, che le violenze cessino e il primo ministro faccia un passo indietro. Perché questo avvenga possono forse contribuire le campagne di sensibilizzazione all’estero e la divulgazione delle notizie sull’esercizio della violenza da parte della polizia sui civili. Ed in questo siamo un po’ tutti responsabili.