di Francesco Tassi
Sul finire del 1938 viene decisa una spedizione scientifica in Africa orientale, allo scopo di approfondire la conoscenza delle tribù locali da poco sottomesse all’impero fascista. A capo della missione è posto il professor Lidio Cipriani, direttore del Museo antropologico di Firenze e, come suo assistente, viene scelto Giuseppe Cei. Nato a San Miniato nel 1918, Cei è stato per gran parte della sua vita un ricercatore nel campo della biologia animale presso l’Università di Tucuman in Argentina. Laureatosi in Scienze Naturali, presso l’Università di Firenze, aveva appena 20 anni nel 1938, quando si unì come ufficiale dell’esercito alla spedizione nell’ovest etiopico voluta dal Ministero dell’Africa Italiana e la Reale Accademia di Italia, presieduta dall’illustre geologo Giotto Dainelli.
Di tale esperienza resta oggi memoria nel diario che quest’ultimo, allora giovanissimo scienziato, annotò durante quei mesi; pagine in cui il rigore dello studioso cede volentieri il passo alla meraviglia e allo stupore del ragazzo. Corredato da un ricco repertorio fotografico, il volume è impreziosito dalle riproduzioni di dodici originali acquerelli di Silvana Silvi Cei, moglie dell’autore, raffiguranti i principali fra i “gruppi razziali” descritti nel diario.
Nel quadro storico dell’antropologia italiana, la spedizione scientifica di Cei e Cipriani, rappresentò una vera eccezione. Infatti, mentre i paesi europei di lunga tradizione coloniale come Inghilterra e Francia, avevano già sviluppato una branca di “scienze coloniali” per aumentare la conoscenze e l’efficienza dell’amministrazione dei propri domini coloniali, in Italia lo sviluppo di queste discipline fu scarso. Paradossalmente il forse più noto l’antropologo che contribuì ad accrescere le conoscenze della culture delle popolazioni autoctone dell’ impero italiano, fu l’inglese E.Evans-Pritchard, (1902-1973), con la sua monografie sui Nuer e sui Senussi della Cirenaica. Mentre le amministrazioni coloniali europee contribuirono allo sviluppo tardo ottocentesco e novecentesco dell’antropologia e della ricerca etnografica, finanziando Istituti di ricerca e spedizioni scientifiche “sul campo”, nell’Italia del Ventennio, l’ombra del Fascismo si estende anche sulla ricerca antropologica.
Il diario di campo dell’allora assistente antropologo Giuseppe Cei, racconta, giorno per giorno, la vita del corpo di spedizione italiano, salpato da Napoli a bordo del piroscafo “Francesco Crispi”, nel Capodanno 1938. Da Massaua a Mogadiscio, la missione antropologica capitanata da Cipriani, a bordo di una Fiat Ardita attraversa l’intero territorio dell’Aoi (Eritrea, Etiopia e Somalia) per studiare, misurare e catalogare i gruppi etnici autoctoni.
Il resoconto di Cei, non solo offre una preziosa testimonianza storica della sensibilità individuale rispetto alla percezione dell’Africa e degli Africani, ma anche del comune sentire degli italiani del tempo che si mostra denso di miti e archetipi esotici, tipici della cultura popolare. Innanzitutto, si intravede una visione esotista e orientalista dell’Africa, come terra la cui purezza originaria sarebbe stata corrotta dal contatto con la civiltà europea, che così viene descritta alla vigilia della spedizione: “Terra d’Etiopia così falsata da noi, che appena intravedo: primitiva, devastata, piena d’incognite, feroce, ingenua, cruda, oscena, sanguinaria, ma forse pure romantica e avvincente. (31 dicembre 1938) ”.
Il concetto di “razzismo” stesso, termine che all’epoca designava un comportamento volto alla difesa della razza per prevenire il rischio degli effetti degeneranti dell’incrocio fra le razze, è oggetto di discussione nelle pagine del diario. La volgarità ideologica del razzismo come architettura scientifica condivisa nell’ambiente coloniale si rinviene spesso nelle conversazioni riportate nel Diario. Come nelle parole del Colonnello Lusana, che come metodo per domare i ribelli etiopici propone di “costringerli ad incrociarsi rapidamente coi negri… li farebbe diventare rapidamente cretini!” . Nella concezione razzista di Cipriani, la purezza della razza italiana viene prima di tutto, così leggiamo che egli condanna il comportamento di molti capitani che, in barba alla legge, mantengono presso il loro accampamento sciarmutte (concubine) indigene. Tuttavia, il “madamato”, ovvero la pratica di convivenza con una donna indigena come concubina, che era formalmente proibito dalle leggi razziali e che faceva inorridire il Cipriani, era però molto diffuso.
Nel diario del Cei, anche agli aspetti triviali è concesso uno spazio riguardevole in quanto paiono un ricorrente argomento di conversazione fra gli ufficiali italiani, e lo stesso Cipriani “paladino della purezza della razza”, viene descritto nell’intento di andare alla smaniosa ricerca delle prostitute africane che si dice fossero a bordo del piroscafo “F.Crispi”(31 Dicembre). Alcuni celebri canzonette[1] razziste ben rappresentano la reale volontà di dominio che si celava dietro un apparente leggerezza goliardica.
Non manca tuttavia qualche opinione contradditoria, che ravvede nel sistema razzista alcune debolezze. Interessante è un giudizio premonitore dell’autore stesso, che scrive: “Il razzismo, se seguita ad andare come fino adesso, diventerà unicamente un puzzle irresolubile, una tale mongolfiera tesa che a un dato punto scoppierà battendo violentemente i rottami in faccia a chi la gonfiò”. Già nel 1950 infatti, la Dichiarazione sulla razza dell’Unesco dichiarava senza alcun fondamento scientifico la nozione di razza applicata alla specie umana.
Eppure nemmeno nelle parole finali del giovane Cei si rivela una trasformazione della sua percezione dell’Africa, alla quale rivolge: “Un addio all’Africa Orientale, che ci ha dato tante impressioni ed emozioni, con il suo indefinibile fascino, e che mi ha aperto gli occhi per tante e tante cose, viste e vissute, non lette nei giornali… ” (11 Aprile) e si chiede “Quando ritornerò in Africa?”(18 – 26 aprile). Il ritorno non ci sarebbe mai stato in quanto nel corso di meno di due anni, con l’attacco degli inglesi all’Aoi e lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, il “glorioso” impero coloniale italiano si sarebbe presto ridotto in cenere fino a diventare oggi, a sessant’anni di distanza, un lontano ricordo per pochi e un passato indefinito o sconosciuto per molti.
Infine, le illustrazioni di “tipi indigeni” presentate nelle ultime pagine del libro, realizzate ad acquerello da Silvina, la moglie di Giuseppe Cei, sono in linea con quella che era la rappresentazione dell’Altro nella propaganda coloniale, con continuità fra il periodo liberale e quello fascista. I soggetti sono rappresentati in piedi, di fronte o di profilo, come nelle fotografie antropometriche, nelle quali i soggetti indigeni posano di fronte o a mezzo busto, su sfondo neutro, magari di fianco a un’asta graduata. Mentre viene dato grande risalto ai loro costumi, agli adornamenti e agli oggetti che rivestano le figure umane indigene, queste vengono al tempo stesso spogliate della loro piena umanità e ridotte a modelli di una collezione di “figurine” dell’alterità che incarnano le aspettative e gli ideali della società coloniale. Ciò che non viene rappresentato è la dimensione del conflitto, della violenza e del potere che si cela dietro al contatto che ha permesso l’esecuzione di quelle rappresentazioni fotografiche o artistiche. La Storia viene eliminata dallo sfondo e posta al di fuori della cornice. Al tempo stesso, l’occhio dell’osservatore resta fuori campo, quasi a evidenziarne una presunta quanto asettica neutralità.
La lettura di questo diario storico è consigliabile a tutti coloro che desiderano avere uno scontro interlocutorio con la logica razzista, utilizzata dal Cei come scontata lettura della realtà . Una comparazione con la realtà dell’Italia contemporanea, dove il ministro dell’Integrazione Cecilè Kyenge – cittadina modenese di origine congolese – viene insultata per via del colore della sua pelle, rivela la preoccupante persistenza del discorso razzista, sebbene questa sia spesso negata anche da chi ne è ambasciatore . Ciò è motivato anche dal fatto che oggi è ancora molto scarsa la conoscenza del sessantennio coloniale italiano, periodo in cui il Bel Paese si è macchiato di crimini contro l’umanità come l’istituzione di campi di concentramento in Libia e la violazione della Convenzione di Ginevra con l’uso dei gas chimici in Etiopia. Anche i comportamenti razzisti odierni i- solo in apparenza trascurabili – come l’uso pubblico della parola “negro”, mostrano la sopravvivenza di un etnocentrismo che oggettivizza e esclude l’Altro, qualunque sia la sua provenienza.
Nella realtà interculturale dell’Italia del presente, occorre invece imparare a costruire discorsi nuovi che accolgano logiche relazionali e partecipative che promuovono l’inclusione e la formazione di nuove identità. Fino a quando ci sarà chi canta “Faccetta Nera” e chi parla di “negretti”, è evidente che a proposito della relazione con gli Altri gli italiani “brava gente” dovranno davvero impegnarsi a migliorare. Nel frattempo, un immaginario e un linguaggio interculturale, che renda conto della diversità della società italiana di oggi – certamente ancora in fase di costruzione- non è rappresentato adeguatamente dai media che, invece di rassicurare, dovrebbero rappresentare adeguatamente chiunque risieda sul suolo italiano.
[1] Nell’”Italietta” ancora liberale si cantava : …”La regina Taitù/ Menelic’ un lo vol più/ da che ha visto Baratieri/ fa i figlioli bianchi e neri…”; di epoca fascista invece la più celebre: …”faccetta nera, bella abissina / aspetta e spera che la vittoria si avvicina… Quando saremo vicini a te / noi ti daremo un’altra patria e un altro Re!…”
L’ha ribloggato su Antropologia e sviluppo (di Giulia Conte)e ha commentato:
Mentre viene dato grande risalto ai loro costumi, agli adornamenti e agli oggetti che rivestano le figure umane indigene, queste vengono al tempo stesso spogliate della loro piena umanità e ridotte a modelli di una collezione di “figurine” dell’alterità che incarnano le aspettative e gli ideali della società coloniale.