di Anna Maniscalco
Blog: Diario di una piantagrane
Il termine entrò nel nostro linguaggio comune in quarta superiore. Studiando le vecchie tracce dei temi di maturità ci imbattemmo in questo curioso sintagma: “luoghi dell’anima”. Pur senza approfondirne il significato, ben presto divenne uno dei nostri caratteristici modi di dire, uno di quei segni tipici che si usano nei gruppi di amici che crescono insieme. Io ho trovato il mio quasi da subito, l’ho sempre conosciuto, da quando la maestra d’inglese alle elementari ci faceva vedere sempre le stesse tre videocassette con le casette di periferia strette l’una all’altra e il pezzetto di giardino e la macchina parcheggiata fuori, e poi stacco e autobus a due piani che sfrecciano in un traffico improvviso. Tra le pagine dei libri di cui mi nutrivo forsennatamente, nello scalpiccio di zoccoli su e giù per una nebbiosa Baker Street, da un elegante circolo di gentiluomini frequentato da uomini del calibro di Bertie Wooster a un altro: Londra era sempre stata lì.
Dopo brevissime vacanze che avevano avuto solo l’effetto di aprirmi di più lo stomaco, la scorsa estate ho finalmente avuto l’occasione di trascorrere un mese lassù, per conto mio. Un mese è un soffio, non è abbastanza per poter dire di aver davvero vissuto in un posto, ma non è nemmeno così poco da sentirsi di passaggio. Certamente la città dei miei romanzi non è più, se mai lo è stata, la capitale di adesso, la Londra che cambia dal giorno alla notte, che si espande, che ingurgita persone, auto, grattacieli, turisti, pakistani, cinesi, indiani, miliardari russi, sognatrici italiane come me. Truman Capote scriveva che si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte; la grande domanda alla vigilia della partenza era quindi se questa cosa che stava iniziando sarebbe stata quella giusta, o se si trattava solo di un gigantesco errore. Nel bene e nel male mi avrebbe detto qualcosa in più su di me, e con la gioia e la paura che mi stringevano le budella sono salita sull’aereo.
Alloggiavo a sud del fiume, in una tranquilla via residenziale che si chiama Pocock Street. Sembrava sempre lunghissima quando la percorrevo con le sporte di Sainsbury’s, e ancora più lunga lo diventava alle quattro del mattino, di ritorno dal Piccadilly Institute, dove il festaiolo del gruppo era riuscito a trascinarci qualche volta. “It will be fun, guys, we’re in London! Come oooon”. Uscivamo quando il locale chiudeva, e Leicester Square era ancora illuminata a giorno, era a sua volta una discoteca a cielo aperto, io guardavo preoccupata le gambe nude delle ragazzine che passavano mentre tremavo nei jeans. Andavamo a piedi, anche se c’era un buon servizio di autobus notturni, perché sapevamo di avere poco tempo per respirare la città; pazienza se c’era freddo, se era un’ora da appisolarsi sui sedili di uno di quei double-decker così alti e precari. In cambio ricevevamo le strade maestose del West End, il biancore della National Gallery nel buio, la vista sempre splendida dal Waterloo Bridge. L’amico festaiolo metteva Don’t Stop Me Now dal cellulare – era la canzone su cui ci eravamo finalmente trovati d’accordo dopo mezz’ora di camminata – e ricominciavamo a danzare, a saltare come folletti e a piroettare mentre percorrevamo The Cut, Blackfriars Road, e infine ecco la benedetta Pocock Street, divenuta subito così famigliare. Abbiamo battuto diversi pub nelle nostre esplorazioni serali: spesso sceglievamo quelli popolati da gente giovane e dalla musica giusta, io prediligevo quelli dall’aria antica, mi riferisco in particolare a un paio di rubicondi locali incastrati nel reticolo di viuzze di mattoncini vicino a quella meraviglia che è Covent Garden, e che portavano la dicitura “Charles Dickens beveva qui”. Una volta realizzato che Charles Dickens aveva bevuto in praticamente ogni bugigattolo della città mi sono messa il cuore in pace.
A Londra tutti noleggiano le biciclette Barclays, ma una vera pista ciclabile non l’ho mai vista, a parte forse uno stradello vicino al parco di Hampstead Heath, che già non sembra più nemmeno città, così spettinato e ruggente rispetto alle ordinate combinazioni floreali di Regent’s Park, o al morbidissimo prato di Hyde Park, dove i bambini corrono a piedi nudi e si spruzzano l’acqua attorno al Memoriale per la Principessa Diana. Personalmente, preferivo spostarmi a piedi, al massimo con la metropolitana, se ero in ritardo, cosa che avveniva con allarmante frequenza. Avevo completamente ridimensionato il mio concetto di distanza; quello che nella mia minuscola città sembrava un percorso lunghissimo, lassù era una banale passeggiata. Non so nemmeno io quanti chilometri ho macinato, senza rendermene conto, perché dovevo vedere tutto, dovevo assorbire tutto, godermi ogni istante di quel rarissimo sole inglese che sa essere incredibilmente generoso. Avevo eletto dei sottoluoghi dell’anima, dei punti strategici dove il cuore batteva ancora di più, dove l’aria sulla faccia non era poi tanto fredda, dove ero a casa mia: il Millenium Bridge, che è solo pedonale, profuma di noccioline caramellate e collega St Paul con la Tate; da un lato l’imponenza della sponda nord, i grandi uffici, la vita frenetica, dall’altro i mattoncini, l’arte moderna, un prato pieno di gente vestita da guerrieri vichinghi, il Globe Theatre. Poi Trafalgar Square, non solo per la bellezza accogliente della National Gallery, dove pure la caffetteria è un capolavoro, ma per la popolazione stessa della piazza, per tutti quegli strambi che iniziano a urlare frasi apocalittiche al megafono, per i ballerini che improvvisano coreografie tra le due fontane, per il tizio che suona la cornamusa in un angolo – il Cielo sa quanto mi commuove la cornamusa – , per ognuno di quei musicisti che uniscono il proprio strumento al coro dei folli. E Covent Garden, molto più borghese, rassicurante con i suoi negozi, i suoi ristoranti, i pub emblema della britannicità, le alzate ripiene di scones e tramezzini da mangiare con il tè, ecco, Covent Garden scalda il cuore. Tutto il reticolo di stradine nei dintorni sembra prometterti un sacco di calore e felicità; e comunque, anche lì qualcuno che fa il giocoliere con i coltelli e una motosega accesa, in equilibrio su una scala, lo si trova sempre. Se degli sconosciuti mi avessero chiesto chi ero, avrei proprio risposto: sono il Millenium Bridge, sono Trafalgar Square, sono Covent Garden. E loro mi avrebbero dato una monetina per andarmi a prendere una pinta, probabilmente.
Foto dell’autrice