di Anna Maniscalco
Blog: Diario di una piantagrane
Un sabato mattina ho visitato il mercato di Portobello Road, io che non esco proprio di testa per le bancarelle e la fiumana di gente che si ferma ogni metro, ma era impossibile non amare le casette colorate che si affacciano, i fiori, il violinista con il cappello giallo sotto un graffito di Bansky, i ragazzi che suonavano all’angolo della via, Londra è proprio musica. Giravo con gli occhi pieni di meraviglia, e contenta perché tutti i commercianti mi sorridevano e mi facevano i complimenti. Non mi sarei stupita se si fossero messi a improvvisare una canzoncina in coro mentre io passeggiavo tutta trionfa al centro della strada facendo la solista. Tornai alla dura realtà quando una signora mi trattò un po’ seccamente, proprio mentre ero ormai in pace con il mondo e davanti a un vero monumento della mia cultura cinematografica. “Mi scusi, è quella la libreria del film Nott…”, “YES, GO TO HELL!”
Va bene, posso capirla.
Una sera ci siamo spinti fino a Whitechapel, il quartiere di Jack lo Squartatore, che adesso è soprattutto una zona abitata da indiani e musulmani, e questo l’avevamo indovinato dal delizioso odore di curry per l’aria, misto a non so più quante altre spezie. A pochi minuti di cammino abbiamo scoperto la nuova via della gioventù londinese, uno sprazzo di vita inatteso nella tranquillità un po’ misera di alcuni vicoli. Eravamo andati a cena da un amico che aveva lì l’alloggio, ed ero eccitatissima all’idea di entrare in una vera casa inglese, perché lo studentato non conta.
Sto per dire una cosa un po’ scandalosa. Non c’era la moquette.
In origine avevo l’idea di un viaggio un po’ in solitaria, ma nella mia classe ho finito per trovare persone straordinarie da ogni dove, connazionali compresi. Ho stretto amicizia con una ragazza olandese che aveva sfilato in passerella ad Amsterdam, ma normalmente trascorreva le sue giornate in laboratorio, dove fresca di laurea in Biologia svolgeva ricerche sul cancro. Cenavamo sempre insieme, e insieme abbiamo trascorso l’ultima mattinata, dando addio ai nostri angoli preferiti della città e chiacchierando come ci conoscessimo dall’infanzia. Mi ha insegnato le frasi più semplici della sua complicatissima lingua fatta di aspirazioni e scatarramenti, eppure incredibilmente flautata. Dato che nella vita non si può mai sapere ho voluto imparare anche Ik hou van jou, ti amo; mi piaceva da matti soffiare quelle quattro paroline in giro, agli oggetti, alle strade, sembrava quasi una cantilena orientale, sembrava una cosa che avrebbe potuto dire la dolcissima coinquilina di Singapore, che scherzava spesso su come nella sua città l’inglese fosse in realtà un ibrido, chiamato “Singlish”, e rideva sempre tantissimo, e ci preparava pietanze prelibate ma piccantissime. Usavamo la reazione alle sue zuppe come misura per valutare le nostre cucine nazionali: noi italiani che abbiamo un po’ di dimestichezza con il peperoncino eravamo i più stoici, man mano che si saliva verso Nord aumentava esponenzialmente il numero di bicchieri di latte bevuti per sedare il bruciore. Ci raccontava di edifici altissimi, dove abitare al sedicesimo piano è abitare in basso, e di strade pulitissime, perché a casa sua è proibito, per esempio, lasciare i chewing gum in giro. La coinquilina americana era biondissima, la prima volta che l’ho incontrata girava con una vestaglia nera per la cucina, era pieno pomeriggio e si era appena svegliata. Era allegra, con una bella scorta di vino del supermercato, ci offriva di assaggiare qualsiasi cosa comprasse, ci incoraggiava a bere con lei; al liceo era stata cheerleader e aveva avuto un fidanzato nella squadra di football che non era un quaterback però, ed era un total ass. Dall’altro lato del fiume alloggiava in un ostello la nostra amica dall’Uruguay: piccolina, con una cascata di capelli neri, le capitavano sempre le cose più assurde e incontrava i tipi più strambi, perché si spostava da sola per raggiungere noi che vivevamo tutti vicini. Arrivava ridendo: “I have met new friends”. Una sera portò con sé due tizi che l’avevano aiutata a orientarsi in metro, uno era un ingegnere polacco che discorreva di Dio, e filosofia, e massimi sistemi, ed era stato abbandonato dalla fidanzata che avrebbe dovuto sposare. L’altro era un francese che chiedeva del Chicken, e per Chicken intendeva canne. Un’altra sera era in spaventoso ritardo e quando ormai stavamo rinunciando a uscire – si erano fatte le undici, la metro stava chiudendo – vedemmo dal balcone una figurina che si sbracciava nel buio pesto giù in strada: era arrivata gloriosamente in sella a una bicicletta Barclays. Veniva da King’s Cross e aveva attraversato pedalando praticamente l’intera città, sfidando la notte londinese e i taxi killer.
Di tanto in tanto ci scriviamo, ci permettiamo già di fare i nostalgici: ma siamo tutti molto giovani e la maggior parte di noi è già di nuovo in partenza. Rimango io, in Italia a tempo indeterminato, a collezionare tutte le cose che mi sono piaciute di loro e che ho fatto mie.
Quel mesetto quindi passò ancora più velocemente di quanto mi aspettassi. Mi sentivo completamente fagocitata da Londra. Mi sdraiavo al sole a consumare il mio packet lunch, gironzolavo per le librerie Waterstones, sfogliavo pigramente l’Evening Standard, giornaletto gratuito che distribuiscono ovunque e su cui a un certo punto sono pure finita, a pagina 2 (immortalata dietro Daniel Radcliffe, sono cose che capitano, nel West End). Eppure, mi è rimasta la fame. Di quello che ho visto, delle persone che ho conosciuto, delle realtà che hanno invaso gentilmente la mia corazza, non mi sono ancora saziata. Forse perché in ogni singolo pezzetto di questo viaggio mi sono vista riflessa, mi sono finalmente incontrata. Ero tra gli stendardi del Diamond Jubilee che sventolavano su Regent Street, ero tra le mattonelle decorate con il profilo di Sherlock Holmes alla fermata di Baker Street, tra gli scaffali pieni di tè, tra quelli che facevano cucina di strada vicino all’Imax, tra gli angoli più bui che non mi facevano paura (but don’t try this at home). Non sono tornata più adulta, più matura; ho imparato certamente a badare a me stessa, ma non è stato quello il più grande regalo che mi ha fatto questo viaggio. Sono tornata felice.
E sono stata blessed, benedetta, perché, alla fine dei conti, per questa mia preghiera esaudita non mi è stata chiesta neanche una lacrima.
Foto dell’autrice