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Hebron – Breaking the silence (Parte II)

di Natalia Benedetti

(http://nataliabenedettiblog.com/)

Continuiamo a camminare, Roi ci ha mostrato una vecchia fotografia, mentre racconta l’evoluzione di questa città, la strada di cui sta parlando era il cuore, il centro di Hebron, a pochi metri dalle tombe dei patriarchi. Dal giorno del massacro di Purim (festa ebraica che cade tra febbraio e marzo) nel 1994, quando l’israeliano Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi che stavano pregando presso le tombe dei patriarchi, ferendone altri 120 prima di essere assassinato a sua volta, nuove misure di sicurezza sono state prese per evitare gli scontri. Secondo questo nuovo principio di separazione i settlers (gli israeliani che vivono negli insediamenti in West Bank) che abitano il centro della città sono completamente separati dai palestinesi: queste misure di sicurezza si traducono in un nuovo sistema di segregazione che pone gravi restrizioni di movimento. In alcune strade è vietato completamente l’accesso ai palestinesi, in altre non è permesso condurre veicoli, ci sono militari ad ogni incrocio che controllano l’identità di chiunque passi, hanno il preciso compito di proteggere gli israeliani. Continue pattuglie perlustrano la città ad ogni ora, per tenere la situazione sotto controllo i soldati possono entrare nelle case palestinesi a qualsiasi ora del giorno e della notte, semplicemente per vigilare, “to keep their presence felt”, per non dimenticare mai che sono tenuti sotto controllo, così ci spiega Roi. Io ho visto passare almeno 5 pattuglie e sono qui soltanto da qualche ora. Ci sono check point all’ingresso principale del mercato ed in altri quartieri: sono all’interno della zona palestinese, gli israeliani non possono entrare, quindi si tratta di una pura formalità inutile dal punto di vista della sicurezza, dato che ci sono altri ingressi secondari per accedere alla stessa zona, serve a farli sentire ancora una volta sotto controllo. Questa situazione insostenibile ha spinto i palestinesi a lasciare il centro della città per trasferirsi sulle colline circostanti, coloro che non hanno potuto permettersi di spostarsi vivono segregati nelle poche strade che possono permettersi di percorrere, per strada ci sono soprattutto bambini, avranno fra i 5 e gli 8 anni, cercano di venderci piccoli braccialetti, ci chiedono soldi, ci seguono, ci chiamano per nome, punzecchiano i soldati, giocano. Le case che si affacciano su A-Shuhada street, in cui i palestinesi non possono camminare, hanno le porte sbarrate dall’esterno, ma sono ancora vive: vediamo una signora seduta in terrazzo, ci guarda da dietro un’inferriata, nella casa di fianco una bambino ci urla qualcosa in arabo, vicino c’è un cartello con scritto “aparthaid”. La maggior parte di queste case ha cortili interni con porte secondarie che permettono a queste persone di scendere nelle strade parallele, coloro che non hanno una porta sul retro passano dai tetti, mentre saliamo sulla collina vedo i panni a stendere, le donne che chiacchierano ed i bambini che ci lanciano palle di neve.
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Incontriamo alcuni attivisti palestinesi in una casa in cima ad una collina coperta di ulivi, coperta di neve, si vede tutta la città. Fanno parte di un’associazione che raccoglie fondi per mandare avanti un centro ricreativo per bambini, per cercare di tenerli lontano dalla strada, lontano dal conflitto. Sono loro le principali vittime dell’occupazione. Veniamo a sapere che sono proprio bambini fra i 7 e gli 8 anni ad essere arrestati più spesso dai soldati: lanciano pietre contro le macchine dei settlers, provocano oppure giocano soltanto, vengono portati per 48 ore alla centrale di polizia, sono schedati e poi rimandati a casa. Statisticamente sono i settlers ad essere causa di scontri con i vicini palestinesi: sono aggressivi, lanciano pietre, provocano danni di vario genere alle case palestinesi, aggrediscono le persone. La differenza è che mentre per loro la legge è quella israeliana, per i palestinesi si applica la legge militare, ben più rigida; e mentre i settlers sono circondati da soldati il cui compito è proteggerli come fossero guardie del corpo, i palestinesi devono aspettare che arrivino le forze di polizia locali.

Mentre ritorniamo verso Gerusalemme, sta facendo buio, Roi ci racconta la sua esperienza da soldato: la sua è la storia di una generazione, una generazione spezzata, di ragazzi e ragazze che a 18 anni mettono in pausa la loro vita per prendere in mano le armi ed imparare a fare la guerra, ed in guerra ci vanno davvero. Si inizia con 4 mesi di addestramento, lontani dal resto del mondo, imparano a vivere insieme, stringono le amicizie più importanti della loro vita. Poi qualcuno viene mandato a prestare servizio ad un check point più o meno vicino a casa, il loro nemico più grande è la noia, il tempo che non passa mai; altri fanno servizio di sicurezza presso qualche ufficio; qualcuno fa lavori più o meno burocratici, alcuni ancora vengono mandati in West Bank. Questa diventa la loro differenza più grande. Roi ribadisce più volte questa frase: «non avevamo idea di che cosa succedesse veramente in West Bank», i suoi genitori sono settlers che vivono in un insediamento e non sanno nulla di quello che accade al di là delle loro case: vivono protetti dai soldati, separati dai vicini palestinesi, con accessi separati ai check point per entrare in Israele. Degli abusi, delle discriminazioni che subiscono i palestinesi dicono di non saperne nulla. Non so quanto sia vero, quanto possa essere una giustificazione, però mi sono resa conto vivendo qui di come si falsata la percezione del conflitto e della realtà da una parte all’altra del muro, da Israele non ci si accorge assolutamente della vita sotto l’occupazione, di come vivono i palestinesi, finché non si ha la possibilità di vedere con i propri occhi tutto sembra estremamente surreale e lontano. Poi la consapevolezza diventa un peso, un’angoscia profonda, alcuni soldati la archiviano una volta tornati a casa, finito il servizio militare, partono per un viaggio che dura un anno, girano il mondo, hanno voglia di dimenticare. Quando tornano in patria riprendono in mano la loro vita, ricominciano da dove si erano fermati, quei 2 o 3 anni sono spariti nel nulla, hanno lasciato segni nascosti di cui ognuno porta una consapevolezza diversa, ora si inizia l’università oppure si comincia a lavorare. Quello che resta è l’enorme senso di un peso comune, che li rende ancora più uniti nella loro identità israeliana, nel bene e nel male. Noi non abbiamo la più pallida idea di cosa significhi. C’è un bellissimo libro di una giovane scrittrice israeliana che racconta molto bene le problematiche di questa generazione di ragazzi e ragazze soldato, si intitola: “La gente come noi non ha paura”, lei è Shani Boianjiu, lo consiglio moltissimo.

Tutto questo ci racconta Roi, ex soldato, ora attivista per Breaking the Silence, tutto questo ho ascoltato con difficoltà, da altri amici israeliani che ho conosciuto lungo il mio viaggio. La maggior parte non ne vuole parlare, coloro che hanno servito in West Bank non ha voglia di raccontare, non ha voglia di ricordare. Io credo che il peso più grande sia la consapevolezza delle ingiustizie cui sono stati testimoni, di quelle che hanno compiuto, facendo il loro dovere di soldati, del rimorso, dell’angoscia, dell’incapacità di reagire, semplicemente. Il libro con le testimonianze che ci ha lasciato Breaking the Silence parla di abusi, discriminazioni, di arresti ingiustificati, di silenzi, ma parla soprattutto di coloro che hanno deciso di raccontare, di essere testimoni, per aprire gli occhi di chi non vuole vedere. «Non è per giudicarli che raccogliamo queste testimonianze, ma per spezzare il silenzio, per assumerci la responsabilità delle nostre azioni qui ed ora».

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