di Natalia Benedetti
Articolo apparso su http://nataliabenedettiblog.com/
Il kibbutz nasce come forma di comunità, su base volontaria, per lavorare la terra e vivere dei suoi prodotti secondo un modello di proprietà comune ed egualitaria, storicamente questo modello associativo ha costituito il nucleo originario degli insediamenti israeliani in Palestina nel XX secolo, oggi ne restano più di duecento sparsi lungo il territorio nazionale ma la maggior parte è stata privatizzata. Desideravo vederne uno, ma è difficile entrare se non si conosce qualcuno all’interno. L’Occasione perfetta è arrivata grazie a Miki, una ragazza israeliana che vive in Svizzera e fa parte del mio gruppo di ragazzi internazionali in scambio a Gerusalemme; una sera che si chiacchierava dei nostri progetti turistici si è offerta di organizzare un weekend in un kibbutz in cui ha vissuto per alcuni mesi l’anno scorso. Abbiamo deciso di organizzare un viaggio fra donne: Sophia ( di Monaco), Sara (from Barcelona), Miki, Roberta e Marcella (italiane come me); mentre i ragazzi del gruppo si preparavano per un weekend alcolico a Tel Aviv. Siamo partite alle 7.30, sembravamo sei ragazze in gita scolastica: cariche di zaini, cibo, vino e sbadigli. Destinazione Holit: un kibbutz in mezzo al deserto a 3 km da Gaza. Naturalmente perdiamo il tram, quindi partiamo in ritardo da Gerusalemme e facciamo tappa “forzata” in un bellissimo bar di Tel Aviv: penso di non aver mai mangiato così tanto. Riprendiamo il viaggio verso sud: direzione Ber Sheva, attraversiamo campi che si alternano a distese aride di terra bruna, la luce accecante invade i finestrini dell’autobus, il paesaggio verde e collinare che circonda il lato nord di Gerusalemme lascia il posto al deserto.
Holit sembra un piccolo villaggio vacanze: dalla fermata dell’autobus spunta una piccola strada alberata, la via principale del kibbutz, da cui si dipartono alcuni vialetti laterali che portano a quello che un tempo era il refettorio, ora adibito a magazzino e supermercato, alle case-bungalow ed infine ai campi. C’è silenzio, attraversiamo un prato in cui alcuni ragazzi distesi al sole chiacchierano e suonano la chitarra, ci invade un’atmosfera bucolica di pace e tranquillità, la sensazione di essere lontani anni luce dalla città e dal resto della società. Ci accoglie Mati, amico di Miki, ha 27 anni ed è cresciuto qui, ha origini argentine, ci racconta che presto si trasferirà in Australia dalla sua ragazza, fin’ora ha lavorato nella fabbrica di spremiagrumi del kibbutz, ma ora è tempo di cambiare vita.
Ci accompagna ad esplorare il kibbutz: camminando lungo i vialetti ci descrive la storia di Holit. Un anno fa è stato privatizzato, fino a quel momento la comunità viveva secondo un sistema autosufficiente di lavoro e condivisione sul modello socialista, ciascuno riceveva un eguale ammontare di beni in proporzione alle proprie necessità ed al lavoro svolto, non c’era alcun guadagno individuale ed il ricavato della vendita dei prodotti della terra era gestito in nome della comunità. Oggi questo modello di vita non è più sostenibile ed il kibbutz ha deciso di adottare uno stile di vita più moderno: ognuno lavora e guadagna per sé, è padrone delle sue cose ed indipendente dal kibbutz; ciò che resta dello spirito antico è la comunità: quel vivere insieme sentendosi parte di un’unica grande famiglia.
I membri del kibbutz vivono del ricavato di un’enorme piantagione di manghi, datteri, arance e limoni, hanno anche una notevole produzione di latte e fabbricano spremiagrumi artigianali, i prodotti vengono venduti alle grandi compagnie israeliane che a loro volta provvedono a distribuirli sul mercato nazionale ed internazionale. Mati ci mostra e spiega minuziosamente ogni particolare, il nostro gruppetto di donne assomiglia sempre più ad una gita scolastica.
Ritorniamo in città, passiamo vicino ad un cortile che si trova nella piazzetta centrale, Mati ci mostra l’ingresso del rifugio antibomba: oggi adibito a club sotterraneo, bar e luogo d’incontro per i giovani della comunità. Rimaniamo immobili ad ascoltare le sue parole: davanti aglio occhi murales colorati che ricoprono la porta d’ingresso, scendendo le scale ripide arriviamo in una sala ampia tappezzata di poster, immagini di Jimi Hendriks e Che Guevara, disegni, scritte di ogni genere, c’è un tavolo da biliardo ed un bancone da bar. Mi vengono i brividi, sorrido, bello pensare che un rifugio antibombe può diventare una discoteca, una delle tante contraddizioni di questo paese, è rassicurante pensare che da qualche tempo non devono più avere avuto bisogno di rifugiarsi da nessuna parte.
Holit si trova a 3 km dalla striscia di Gaza, la domanda che sorge spontanea è semplice: “non avete paura?”. Mati risponde che no, non hanno paura, si sono abituati ad ascoltare le sirene, in tempo di guerra più volte al giorno; dice che sono talmente vicini al confine da non poter rappresentare un bersaglio, vedono i razzi passare sopra le loro teste, fuochi intrecciati da entrambi i fronti, sono nel mezzo del conflitto, in quella linea immaginaria che separa le due parti, insolitamente al sicuro. Passiamo di fianco al filo spinato che separa il territorio del kibbutz dal deserto, siamo in un’oasi, di fronte a me posso immaginare il muro di Gaza ma è troppo lontano per vederlo, c’è una torretta che un tempo fungeva da vedetta per i militari israeliani, da qualche anno il governo non manda più soldati a sorvegliare il confine, non ci sono abbastanza soldi, ora a volte si alternano i ragazzi del kibbutz, ma non sembra che la cosa abbia troppa importanza. Non riesco a percepire la tensione o la paura sul volto di Mati, le sue parole scivolano pacatamente, sembrano non toccarlo affatto, è nato e cresciuto qui, sul confine, probabilmente ha viaggiato per il mondo, ma gli resta quello sguardo controllato e distaccato, che sembra incapace di provare inquietudine per questa situazione. Mi chiedo come sia possibile vivere a Holit, lontani da tutto, ho la sensazione di perdere la percezione della realtà e sono qui soltanto da poche ore, sembra impossibile pensare che esista qualcosa al di fuori del deserto, dall’interno del kibbutz tutto il resto del mondo sembra svanire lentamente.
I membri di Holit sono molto diversi: ci sono le famiglie storiche che vivono da sempre nel kibbutz; alcuni giovani che arrivano dalla città e che dopo le armi hanno deciso di andare a vivere in campagna per adottare uno stile di vita più pacato e rilassato, lontano dal rumore e dalla velocità della città, alcuni studiano e lavorano, dicono che qui si vive con poco e si sente la presenza di una comunità forte alle proprie spalle. Poi ci sono i ragazzi del servizio militare: giovani israeliani provenienti da tutto il mondo che hanno deciso di tornare in Israele soltanto per entrare nell’esercito. Il servizio militare è obbligatorio per ogni cittadino israeliano ma di solito chi risiede all’estero non partecipa, alcuni giovani però sentono il desiderio di tornare e lo Stato li sistema provvisoriamente nei kibbutz sparsi per il territorio nazionale, in attesa di iniziare l’addestramento. Sono soprattutto americani, hanno 18 anni, vivono tutti insieme in questa piccola oasi in mezzo al deserto, la vita qui per loro sembra una lunga vacanza: fanno festa, imparano a vivere insieme, dicono di passare gli anni più belli della loro vita, intanto aspettano di essere chiamati alla leva.
Siamo accolte nel migliore dei modi: è venerdì sera e la cena del Sabbath è preparata dai giovani del kibbutz: ottimo cibo in grande quantità, humus, verdure di ogni tipo, pita e carne speziata, tutto rigorosamente kosher. Ci chiedono perché siamo venute in Israele, quando capiscono che non siamo ebree appaiono estremamente stupiti, non concepiscono come si possa desiderare di vivere qui, se non si è legati a questa terra. Dopo cena andiamo nel bunker/discoteca, la musica inonda la stanza, ci offrono da bere e ci raccontano la loro vita, sono estremamente gentili ed hanno voglia di raccontare, questa situazione ci permetta di entrare nel vivo della comunità: parliamo del conflitto, siamo curiose di sapere cosa ne pensano qui. Rimango stupita nello scoprire che sanno essere critici, con onestà, quando non si sentono attaccati, parlo con un ragazzo che ha passato 3 anni di servizio militare in West Bank e dice di non aver mai avuto alcun contatto con un palestinese, quando gli chiedo come sia possibile mi risponde che si trattava di missioni segrete e che non dovevano avere contatti reciproci. Mi rendo sempre più conto che qui i civili, israeliani e palestinesi, non hanno alcun modo di incontrarsi, né alcun desiderio di farlo: gli Israeliani hanno il terrore di essere linciati se vanno in West Bank ed i Palestinesi hanno fin troppa burocrazia e controlli per poter tentare di varcare i check point. Katzman è molto critico verso il suo paese, mi dice che è una forma di razzismo, poi ritratta ed aggiunge di non prendere troppo sul serio le sue parole, che lo dica un israeliano mi colpisce profondamente, mi sento un po’ più fiduciosa, da persone come lui possiamo aspettarci un cambiamento per il futuro. Mi chiedo come sia possibile raggiungere un compromesso se le due parti non hanno alcuna voglia di confrontarsi, ho l’impressione che sia soprattutto la comunità internazionale a gestire i reciproci rapporti, facendo da cuscinetto.
Nel frattempo la musica continua ad inondare la stanza ed il pensiero di trovarsi in quello che un tempo era un bunker mi sembra un segno di buon auspicio. Intanto noi donne ci avviamo verso il tetto del refettorio: Miki vuole mostraci la vista notturna del deserto intorno al kibbutz. Ci arrampichiamo sul tetto, sei ragazze straniere che ancora si conoscono poco, ma questo momento di silenzio e condivisione sotto le stelle ci regala una sensazione semplice di unione e ci sembra di essere già amiche da tutta la vita. Andiamo a dormire tutte insieme, nella sala in cui fanno lezione di ebraico, alcuni materassi per terra e qualche coperta, rimaniamo così fino alla mattina, felici ed esauste.
Il giorno dopo facciamo colazione sul prato: pita e nutella, ci aspetta un ultimo giro attraverso la piantagione, raccogliamo arance e limoni, datteri, i ragazzi del kibbutz ci fanno fare un giro sul trattore, corriamo veloci lungo i campi, sembriamo dei bambini. Decidiamo di ringraziarli cucinando per loro un piatto di pasta, semplice e scotta, ma ci fa bene al cuore. Ci rimane l’immagine di una tavolata colma di cibo e di sorrisi, mentre scende la sera, ci lasciamo con la speranza di tornare a salutarli, con la sensazione di essere stati parte di quella comunità anche se per un giorno soltanto, lontani dal rumore, dalle luci della città, la mente distesa e rilassata, che si è abituata al silenzio del deserto.